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Urcionio, Tevere e Treja…


1985. L’uscita accanto a Porta Faul del Torrente Urcionio, immagine ormai perduta per sempre perché l’uscita è stata sotterrata (Foto Mauro Galeotti)

La bambina mi fissava curiosa mentre attonito contemplavo il panorama dal cortile alto del palazzo dei Priori.

“Com’è strano visitare Viterbo con gli occhi di chi non la conosce… ”dichiarò seriamente quasi rivolta a se stessa, mentre la madre, una giovane e bella signora di nome Barbara, mi indicava la sottostante piazza dei Caduti, dicendo “ecco lì sotto scorre l’Urcionio!”.

Aguzzai la vista e non scorgendo altro che la spianata di un ampio parcheggio, con alla sinistra i ruderi di una chiesa e a destra un monumento moderno, domandai “dove… dove?” E lei “lì… proprio lì sotto”. Compresi allora che doveva trattarsi di un corso d’acqua interrato, e parafrasando il nome dissi “ah, è stato riempito con gli orci (nome desueto per vasi)” – “può darsi…” commentò Barbara per nulla confusa dalla mia battuta.

Ed io insistetti “eh sì, evidentemente il nome Urcionio deriva dagli orci che vi sono stati riempiti e svuotati nel passato”. Poi ce ne restammo in silenzio mentre cercavo d’immaginare il torrente che scorreva da basso….

E lo vidi, con gli occhi della fantasia. Quella piana in fondo sembrava fatta apposta affinché la percorresse un fiume. Notai allora come l’orografia del territorio ricordasse un ideale alveo, una valle dolce e rigogliosa – un tempo che fu – ora un posteggio a ore…!

Sulla costa, risalendo con lo sguardo dall’altro lato, diverse nuove costruzioni, nuove si fa per dire ovviamente, forse risalenti al Ventennio, e l’Urcionio scomparve dalla mia immaginazione e ridiventò un fiumiciattolo “intubato”.

Triste destino per il rio che vide sorgere l’antica Viterbo, ed infatti è risaputo che gli Etruschi costruissero le loro città presso i corsi d’acqua, utili per l’approvvigionamento idrico, per le coltivazioni, per la pesca, per i bagni estivi… poi rividi con gli occhi della mente uomini e donne intenti a risciacquare i panni, a riempire gli orci oppure a rinfrescarsi le membra. Infine vidi la Viterbo ottocentesca e quella degli inizi del secolo scorso, con le prime condotte fognarie scaricanti nel fiume, finché esso stesso divenuto una cloaca a cielo aperto fu chiuso, alla vista e all’olfatto.

“Povero Urcionio! Cancellato, ucciso, dopo aver dato la vita a Viterbo!”.

Così riflettevo fissando distrattamente le auto in sosta, e quelle che entravano ed uscivano dal “boulevard” Marconi, la continuazione dell’alveo interrato.

Mi accorsi allora degli occhi grigi di Barbara puntati su di me, sentii la sua malinconia, ricordai quella volta in cui venne a trovarmi a Calcata e passeggiando sulle rive del Treja le raccontai leggende e storie di antichi riti, di lavacri sacri, del fatto che in tempi remotissimi Calcata fosse stata un’isola del proto-Tevere, del fossato che in epoca medioevale difendeva la “bocchetta” d’ingresso al paese, di come poi fosse stato riempito con terra di riporto,  di come verso fine ottocento avessero innalzato il terrapieno che costituisce l’attuale piazza Roma, di come questa stessa piazza sia stata ignominiosamente e volgarmente utilizzata come parcheggio per le auto delle orde turistiche, insomma di come Calcata e Viterbo avessero tradito le proprie origini…

*

Ma a Viterbo una memoria rimane, legata ad un semplice ultimo contadino pacifico e pacifista, Alfio Pannega, che in Valle Faul, dove un tempo scorreva l’Urcionio, visse e morì. In sua memoria un gruppo di amici, coordinati da Peppe Sini, sta lavorando per erigere una lapide “ad memoriam” con i pensieri di tanti viterbesi che lo conobbero. Di seguito ne riporto due:  

Alfio Pannega, 10 anni fa la scomparsa. L'appello: «Sindaco, ricordiamolo  degnamente»

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“In questa casa posta nella Valle Faul
lunga “una buona corsa di cavallo, e larga poco meno che la metà”
sede di attività economiche vitali per la città
tra gli orti irrigui che fiancheggiavano il fosso Urcionio
tra felci, pervinche, villucchioni, centauree, borragini,
gioiose corone di succiamele e impenetrabili canneti
ha vissuto gran parte della propria vita Alfio Pannega
emblema di alacre lavoratore, di libero pensatore e di portatore di pace.”

 
“Basta una goccia per trasmettere tutta la memoria dell’oceano

Basta un  fugace sguardo per indovinare una presenza
Basta  un respiro per mescolare  tutta l’aria del mondo
Basta una impronta per riconoscere un passaggio sulla terra
Basta un singolo pensiero per ritrovare Alfio Pannega”

 
Paolo D’Arpini – Rete Bioregionale Italiana