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Le foreste dell’Amazonia bruciano per fornire di carne i paesi emergenti?

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Il titolo è un po’ provocativo, ma serve a dare il senso della faccenda… Negli ultimi mesi abbiamo sentito parlare molto degli incendi nella foresta amazzonica. Il problema non è il cambiamento climatico in se, la siccità, i venti etc… Ma l’imprudenza dell’essere umano nel valorizzare i soldi e l’interesse di breve termine a discapito di quello di lungo periodo. Bolsonaro, Presidente in carica in Brasile  da gennaio 2019, continua nella sua politica di sviluppo favorendo la diffusione di pascoli per l’esportazione di carne in Cina e Hong kong a discapito dell’enorme patrimonio forestale che il Brasile possiede.

 
 (a cura di Dario Ruggiero)
 
 

 

Perché sta bruciando l’Amazzonia
 
Le queimadas, cioè i fuochi usati da agricoltori e allevatori per ricavare nuovi campi e pascoli, o per rigenerarli, sono la causa principale della deforestazione in Amazzonia: l’80%, secondo un istituto di ricerca forestale dell’università di Yale, viene appiccato per lasciare posto a pascoli; un altro 10-15% a coltivazioni intensive, soprattutto di soia (molto usata per produrre mangimi).
 
 
Di che cosa stiamo parlando: un patrimonio inestimabile
 
L’Amazzonia è la più grande foresta tropicale al mondo, con una superficie totale di circa 5,5 milioni di chilometri quadrati, oltre la metà dei quali in territorio brasiliano. È uno degli ecosistemi più ricchi al mondo, ed è fondamentale per un sacco di cose: dalla rimozione di anidride carbonica nell’atmosfera al suo ruolo centrale nel rilascio di vapore acqueo, determinante nel definire la quantità di piogge, dalle correnti oceaniche alle temperature globali.
 
 
Virtuosi negli ultimi 20 anni
 
Negli ultimi vent’anni il Brasile si era impegnato con una certa determinazione a salvaguardare l’Amazzonia dalla deforestazione, e soprattutto negli ultimi anni ci era in parte riuscito, tanto che era citato come esempio virtuoso di salvaguardia ambientale. Gli sforzi erano però diventati sempre più onerosi, visto che la recessione che colpì il paese nel 2014 lo rese sempre più dipendente dall’allevamento e dalle grandi coltivazioni, due tra le principali cause della deforestazione.
 
 
Deforestazione in aumento con l’avvento di Bolsonaro al potere
 
L’Istituto Nazionale per la Ricerca Spaziale (INPE) ha pubblicato delle analisi basate sulle immagini satellitari secondo le quali nella prima metà di luglio sono stati distrutti oltre 1.000 chilometri quadrati di Amazzonia, il 68 per cento in più della superficie distrutta nell’intero mese di luglio del 2018. Nei sette mesi in cui Bolsonaro è stato presidente la Foresta amazzonica ha perso 3.444 chilometri quadrati di alberi: il 39 per cento in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Bolsonaro, un populista di estrema destra e molto liberista in economia, ha cambiato le cose assicurando che la sua priorità sarebbe stata lo sviluppo economico.
 
 
L’industria della carne
 
Circa 450mila chilometri quadrati di Amazzonia deforestata sono destinati a pascoli. Il Brasile, secondo produttore mondiale di carne bovina, ne esporta un quarto del consumo globale. Il dato, fra il 2010 e il 2017, è aumentato del 25%, per arrivare ai 1,5 milioni di tonnellate l’anno dichiarati dall’associazione degli esportatori brasiliani di carne. Hong Kong e la Cina, due mercati esplosi negli ultimi anni, sono i principali importatori.
 
 
La colpa di chi è?
 
Dare la colpa solo al nuovo Presidente non sarebbe giusto. In un mondo in cui l’interesse di breve termine prevale su quello di lungo periodo ed ogni paese lotta per il proprio PIL, sarà difficile trovare un Presidente lungimirante che guarda al benessere di lungo periodo.
Il fatto è che alcuni patrimoni dovrebbero essere considerati beni comuni di tutti gli esseri umani e salvaguardarli con politiche internazionali volte a compensare i Paesi per politiche che li salvaguardino e li valorizzino.
 
 
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Dario Ruggiero,
LTEconomy, 3 settembre 2019
 
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