Land Grabbing: sviluppo o antisviluppo?

A cura di Dario Ruggiero (Maggio 2014)
Premessa

Con riferimento al primo fattore (la sicurezza alimentare), dopo la crisi alimentare del 2008, quando il prezzo dei beni alimentari di base è cresciuto del 40% in un anno (seguito da un aumento addirittura maggiore nel 2011), alcuni Paesi (principalmente Paesi importatori di cibo), nel tentativo di ridurre il rischio di dover far fronte a crescenti spese per l’alimentazione della propria popolazione, hanno deciso di acquisire terre fertili in altri Paesi. Questo è il caso dell’Arabia Saudita, del Giappone, della Cina, dell’India, della Korea, della Libia e dell’Egitto. In base ai dati forniti dal Land Matrix dataset, il fenomeno del Land Grabbing è cresciuto nel corso degli ultimi anni, in particolar modo nel 2009, quando l’ammontare di terre acquisite ha toccato il suo massimo.

In totale a giugno 2013 si contavano 755 accordi relativi a 32,6 milioni di ettari di terreno; da allora, in base ai dati del Land Matrix dataset, si sono aggiunti nuovi accordi e le informazioni sono state aggiornate. [1] In particolare, con riferimento all’ultima newsletter di Land Matrix (Febbraio 2014), sono stati osservati 181 nuovi accordi nella categoria “accordi conclusi”, i quali adesso ammontano ad un totale di 936 accordi (il numero è addirittura aumentato a 949 accordi se si fa riferimento alle informazioni disponibili a maggio 2014), 38 nuovi accordi nella categoria “accordi pianificati”, per un totale di 183 accordi, 26 nuovi accordi nella categoria “accordi falliti”, che ammontano a 76 accordi.
In termini di dimensione, con dati riferiti a febbraio 2014, gli accordi conclusi comprendono un totale di 35,7 milioni di ettari. Pertanto, si è avuto un incremento di circa il 10% rispetto ai 32,6 milioni di ettari a giugno 2013. Gli accordi pianificati coprono un area di terra pari a 14,1 milioni di ettari (in crescita rispetto ai 10,8 milioni di ettari registrati a giugno 2013). Un aumento significativo è stato altresì osservato con riferimento agli accordi falliti (da 4,8 a 7,1 milioni di ettari). Con dati disponibili a maggio 2014 (quando il presente articolo è stato realizzato), la dimensione aggregata degli accordi conclusi è pari a 35,9 milioni di ettari.

Tra i 10 Paesi maggiormente soggetti ad accordi di Land Grabbing (cosiddetti “target country”) ci sono la Papua New Guinea e l’Indonesia, seguiti da tre Paesi africani. Rispetto alla newsletter di giugno 2013, non ci sono stati cambiamenti sostanziali nella classifica. Ci sono però due nuove entrate nella Top ten dei Paesi Target: Brasile e Ucraina – rispettivamente primo Paese Sudamericano e primo Paese dell’Europa dell’Est ad entrare nella Top ten – che hanno sostituito l’Etiopia e il Madagascar (adesso rispettivamente in undicesima e in diciannovesima posizione).
I driver principali dell’acquisizione di terreni secondo il Land Matrix dataset sono legati alla produzione industriale. In particolare, la coltivazione di colture alimentari (cultivation of food crops) è il driver più importante; essa riguarda 331 accordi conclusi per un area di 9,6 milioni di ettari. Di questi, 233 progetti (pari a un’area di 5,2 milioni di ettari) hanno iniziato la fase produttiva. Il secondo driver in ordina di importanza è la produzione di biocarburanti (biofuels) (183 accordi per un totale di 7,5 milioni di ettari; 119 progetti per un totale di 4,0 milioni di ettari hanno già iniziato a produrre). La produzioni di beni agricoli non alimentari (Non-food agricultural commodities) sono stati oggetto di 110 accordi. La maggior parte di questi accordi riguardano le piantagioni di gomma (rubber plantations) (60%), ma consistenti sono anche gli accordi relativi alla produzione di cotone e di prodotti per l’industria cosmetica. Oltre all’agricoltura, anche l’industria della silvicoltura (92 accordi) e il turismo (12 accordi) sono tra i driver del Land Grabbing. In 53 casi non ci sono informazioni sufficienti per identificare l’intenzione dell’investimento.


Prendiamo ora in considerazione la politica di sicurezza alimentare dei Paesi del Golfo (Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti). Si tratta di Paesi localizzati in aree desertiche, ma che, allo stesso tempo, possiedono enormi riserve di petrolio e di risorse finanziare da permettersi di fare affidamento ad altri Paesi per l’approvvigionamento alimentare necessario a sfamare le proprie popolazioni. Tuttavia, le recenti crisi alimentari, unite all’indebolimento del dollaro sull’euro (la maggior parte delle importazioni alimentari proviene dai Paesi della zona euro) ha determinato un enorme aumento delle uscite finanziarie del Paese per le spese alimentari (da circa 8 a 20 miliardi di dollari). Considerando che la maggioranza della popolazione in questi Paesi è costituita da lavoratori stranieri a basso costo, tali Stati devono garantire prezzi bassi. Al fine di evitare un’eccessiva vulnerabilità a nuove crisi alimentari, questi Paesi hanno firmato accordi in base a cui essi forniranno petrolio e capitali in cambio di assicurare alle proprio corporation la possibilità di accesso a parte delle loro terre per soddisfare la propria domanda di cibo. Tali accordi sono stati stipulati soprattutto con il Sudan, il Pakistan, i Paesi del Sud-est asiatico (Burma, Cambogia, Indonesia, Laos, Filippine, Thailandia e Vietnam), Turchia, Kazakhstan, Uganda, Ucraina, Georgia, Brasile.
Passiamo ora alla seconda causa sottostante il fenomeno del Land-Grabbing: la speculazione finanziaria. Con il cambiamento climatico e l’impoverimento delle risorse agricole (acqua e terra), i terreni fertili in futuro potrebbero diventare una risorsa scarsa (e quindi fonte di guadagno) su cui investire il proprio denaro. Ciò ha generato un flusso di investimenti privati in questo settore. I Paesi maggiormente destinatari di tali investimenti (Malawi, Senegal, Nigeria, Ucraina, Russia, Georgia, Kazakhstan, Uzbekistan, Brasile, Paraguay, Australia) sono stati tutti identificati come Paesi in possesso di terre fertili, con disponibilità di acqua e buona potenzialità di crescita nella produttività delle imprese. L’orizzonte medio di tali investimenti è di dieci anni, con il chiaro obiettivo di rendere “produttive” tali terre e di costruire le necessarie infrastrutture di marketing per la commercializzazione dei prodotti; i tassi di rendimento attesi per questi investimenti oscillano tra il 10 e il 40% in Europa e fino al 400% in Africa.
La corsa all’appropriazione di terreni da parte dei governi e degli investitori privati sottolinea, in conclusione, alcune chiare tendenze: 1) da un lato la fiducia dei governi nei mercati agricoli sta collassando, per cui, nel tentativo di ridurre quanto più il rischio insito negli aumenti dei prezzi dei prodotti alimentari, si stanno spingendo sempre più nel controllo di terre straniere per garantirsi un canale diretto all’approvvigionamento alimentare di cui hanno bisogno; 2) la terra fertile sta diventando un fattore scarso e, per questo, oggetto di investimenti e fonte di guadagno per gli investitori privati; 3) gli agricoltori locali stanno progressivamente perdendo il diritto di coltivare la propria terra per soddisfare i fabbisogni alimentari locali. In poche parole, molte popolazioni locali stanno subendo un’espropriazione di terre, perdendo così il diritto di decidere sul proprio destino e su quello delle terre in cui vivono.
“E’ vero, quando queste multinazionali prendono il controllo di terreni agricoli nei Paesi poveri, esse portano macchinari, nuovi skill e danno occupazione a delle persone. Ma l’evidenza suggerisce che l’ammontare delle persone che viene assunta in queste imprese è molto inferiore all’ammontare delle persone che vivevano e lavoravano prima che l’investimento avesse luogo: il risultato netto è una perdita di occupazione! Inoltre, parte di questi nuovi occupati vengono dall’estero, al fine di condurre lavori che richiedono capacità che le persone del posto non possiedono. Infine, gli occupati locali spesso vengono compensati con stipendi molto bassi (ben al di sotto dei minimi salariari): noi abbiamo osservato in molti Paesi, e in modo particolare in Etiopia e in Sudan, che le persone ricevono intorno ai 60-80 centesimi al giorno (meno di 1 dollaro al giorno, che è la soglia stabilita dalla Banca Mondiale per definire la linea di povertà a livello mondiale). Riassumendo, il Land Grabbing riduce l’occupazione locale e, le persone che vengono assunte dalle multinazionali agricole si trovano in condizioni lavorative misere. Secondo la nostra opinione, questo non è sviluppo; esso è anti-sviluppo.”
Henk Hobbelink, GRAIN, Fondatore,
Un altro elemento da chiarire riguarda la relazione che intercorre tra gli investimenti esteri e la necessità di far fronte ad alcune crisi incombenti, come la “crisi alimentare” e la “crisi energetica”. Di nuovo, le grandi imprese multinazionali e i loro supporter sostengono che questi investimenti rappresentano la chiave per far fronte al crescente fabbisogno di energia nei Paesi Sviluppati ed Emergenti e alla crescente domanda di cibo da parte di una popolazione mondiale anch’essa in crescita. Ma di nuovo tutto questo è falso. La crisi energetica è principalmente dovuta ad un sovra-consumo di energia nei Paesi occidentali e alle inefficienze nella produzione e nel consumo di energia. Per risolvere la crisi energetica, i Paesi occidentali, insieme ai Paesi emergenti, devono agire sul lato della domanda di energia piuttosto che sul lato dell’offerta energetica. Occorre ridurre il consumo di energia ed eliminare le inefficienze nel consumo di energia che avvengono nei processi industriali, nel sistema dei trasporti e all’interno delle case; non è assolutamente pensabile di poter continuare ad utilizzare la terra in Africa per produrre olio di palma destinato ad alimentare le auto che circolano nei Paesi Sviluppati! Questa è una mera assurdità. Conclusioni simili emergono con riferimento all’altra sfida impellente: la crescente domanda di cibo. E’ vero, in base alle più attendibili proiezioni, nel 2050 la popolazione globale raggiungerà i 9 miliardi di persone (2 miliardi di persone in più rispetto ad adesso); ma è anche vero che c’è una crescente evidenza che i piccoli agricoltori sono più efficienti e produttivi (se la produttività è calcolata come rapporto tra produzione in output e ammontare di terra utilizzata, piuttosto che tra produzione in output e numero di persone impiegate) rispetto alle grandi aziende agricole (Vandana Shiva, Reurgence & Ecologist, March-April 2014; UNCTAD, 2013). Il modello per nutrire un maggior numero di persone non risiede nell’agricoltura industriale; esso consiste nella c.d. “agro-ecologia”; il che significa anche un numero maggiore di piccoli agricoltori “qualificati” nel mondo. Inoltre, con una crisi alimentare alle porte non si può certo pensare di continuare ad utilizzare le terre africane per produrre bio-carburanti! La crisi alimentare va risolta anche combattendo gli sprechi: secondo la Food and Agriculture Organization (FAO), circa 1/3 del cibo prodotto viene sprecato lungo l’intero processo, dalla produzione al consumo (FAO, 2011); un ritorno alla vendita diretta locale sicuramente abbatterebbe in modo notevole tali sprechi.
“Secondo la nostra opinione, l’espansione dell’agricoltura industriale a cui stiamo assistendo non è il modo corretto per meglio gestire i bisogni globali alimentari ed energetici; l’industrializzazione e l’internazionalizzazione dell’agricoltura sta solo imponendo un sistema organizzato su un maggiore sfruttamento delle risorse e delle persone. Nel caso del bio-carburante, lo sviluppo delle piantagioni di palma da olio e deli altri raccolti per la produzione di bio-carburante nei Paesi poveri per alimentare le auto dei Paesi sviluppati non rappresenta di certo la soluzione alla crisi energetica; la soluzione reale al problema consiste nella riduzione del consumo di energia. Inoltre, molti studi dimostrano che la produzione di bio-carburanti sta aggravando la crisi climatica, e non la sta di certo risolvendo.”
Henk Hobbelink, GRAIN, Fondatore,
Quindi, quali sono le reali ragioni che stanno dietro gli investimenti esteri nel settore dell’agricoltura e quali sono le reali conseguenze per le popolazioni locali? Il Profitto! Questo è ciò che cercano gli investitori. Le multinazionali e le società di investimento investono in questi Paesi poveri solo per trarne profitti finanziari, senza prendere assolutamente in considerazione l’utilità che tali investimenti hanno per le comunità locali. Un chiaro esempio di quanto si sta dicendo è dato dalla multinazionale “Karaturi”. Karuturi Ltd, l’unità keniana della Karaturi Global (India) per quanto riguarda la produzione di fiori, dopo anni di sfruttamento delle risorse locali e di evasione fiscale è adesso in liquidazione e gli africani ne stanno pagando le principali conseguenze. E tali conseguenze stanno interessando non soli i lavoratori e i figli dei lavoratori keniani. Karaturi Ltd è stata utilizzata per anni da Karaturi Global al fine di aumentare i profitti e il proprio cash flow. Ma Karaturi non è un caso unico in Africa; la maggior parte degli investimenti sono orientati al profitto. Il profitto è la “condition sine qua non” di questi investimenti, che in alcuni casi vengono utilizzati per produrre cibo (in genere destinato alle esportazioni) e in altri casi per produrre raccolti di palma da olio da destinare alla produzione di biocarburanti. Questi investimenti non vengono effettuati al fine di arricchire le comunità locali! In conclusione, anche nei casi in cui gli investimenti esteri in agricoltura avvengono seguendo regole “trasparenti” (la maggior parte degli investimenti ad oggi sono stati condotti senza un’appropriata consultazione delle popolazioni locali), sussiste il problema del peggioramento delle condizioni di vita per le persone nelle comunità locali: essi perdono la loro terra, ottengono posti di lavoro sottopagati e perdono la loro fonte primaria di cibo. Tutto questo non è “sviluppo”; è “antisviluppo”.
Considerando gli attuali livelli di produzione e gli standard stabiliti per il 2020, entro tale data l’Unione Europea dovrebbe dedicare 21 milioni di ettari di terreno alla produzione di biofuel. Tale ammontare equivale al doppio dell’area utilizzata nel 2012 per la coltivazione di semi oleosi destinati alla produzione di biofuel – più dell’intera area coltivabile di Italia e Spagna messe insieme. Ne consegue, senza alcun dubbio, che l’Unione Europea dovrà fare sempre più affidamento ai raccolti realizzati in altre aree del mondo al fine di raggiungere i propri target. Vediamo in che modo.
La (economica) palma da olio è il sostituto più ovvio. Rispetto ai raccolti di semi oleosi in Europa, i quelli di palma da olio nelle zone tropicali generano una rendita dio biocarburante per ettaro di terreno utilizzato quattro volte maggiore; l’intero fabbisogno di biofuel dell’Unione Europea previsto per il 2020 potrebbe essere soddisfatto in questo caso utilizzando piantagioni per un totale di 5,5 milioni di ettari di palma da olio. Tuttavia, la palma da olio cresce esclusivamente nelle zone tropicali vicino all’equatore, per cui l’area in cui può essere coltivata è ben circoscritta. L’Indonesia continua ad essere il Paese in cui tale coltivazione si espande in modo più aggressivo, principalmente a danno della foresta pluviale (i 2/3 delle nuove piantagioni vanno per l’appunto a sostituire la foreste pluviali indonesiane). Un trend espansivo più recente di piantagioni di palma da olio sta interessando le foreste e i terreni agricoli dell’Africa centrale e occidentale, causando non poche rivolte locali.
I semi di soia rappresentano un’altra fonte di importazione per la produzione di biocarburanti nell’Unione Europea. Al fine di soddisfare i target europei stabiliti per il 2020 la maggior parte della produzione aggiuntiva di semi di soia dovrebbe provenire dall’Argentina e da altri Paesi dell’America Latina. Tuttavia le piantagioni di semi di soia non sono altrettanto produttive (in termini di biocarburante per ettaro) come lo sono quelle di palma da olio; esse producono solo 0,31 tonnellate di petrolio equivalente (toe) per ettaro. Al fine di soddisfare i target del 2020 stabiliti dall’Unione Europea, se si facesse esclusivo ricorso ai semi di soia, occorrerebbero piantagioni per un ammontare di 70 milioni di ettari nell’America Latina.
La Jatropha ha attraversato un boom di investimenti nella metà degli anni 2000. All’epoca era considerata un miracolo dell’agricoltura in termini di produttività. Tuttavia, alla fine si è dimostrato simile a qualsiasi altra commodity agricola: grande bisogno di acqua, di terreni fertili e di fertilizzanti. A dicembre 2012, c’erano più di 130 accordi di Land Grabbing per la produzione di jatropha nel mondo, relativi a più di nove milioni di ettari di terreno.[4] Molti di questi progetti non sembravano in grado di poter decollare; ma la nuova sopra citata direttiva dell’Unione Europea potrebbe cambiare le regole del gioco e rendere la produzione di jatropha molto più attrattiva.
Il dibattito sulla “sostenibilità” dei biocarburanti non dovrebbe limitarsi al fattore “inquinamento”; dovrebbe essere molto più ampio ed includere considerazioni inerenti ad altri tipi di consegienze, quali lo spossessamento di terreni appartenenti alle comunità locali, la perdita della sovranità alimentare nei Paesi colpiti, la deforestazione etc…
L’aumento del Land Grabbing non è l’unica spiacevole conseguenza generata dalla crescente domanda di biocarburanti; c’è un’altra grave conseguenza: il suo impatto sui prezzi degli alimenti. I biocarburanti consumano più di un terzo della produzione di grano negli Stati Uniti e l’80% della produzione di semi oleosi nell’Unione Europea. Al crescere della domanda di terreni e di raccolti per la produzione di biocarburanti, il prezzo degli alimenti è destinato ad aumentare, sia perché la terra a disposizione per la loro produzione si riduce, sia perché la maggior parte delle materie prime utilizzate per la produzione di biocarburanti sono comunque beni alimentari e quindi, al crescere della domanda di questi beni, cresce anche il loro prezzo.
Infine, la produzione di biocarburanti entra in pieno conflitto con l’esigenza di soddisfare i fabbisogni alimentari di una crescente popolazione globale: secondo le più autorevoli stime, la domanda di beni alimentari aumenterà del 70-100% entro il 2050, e questa maggiore domanda dovrà essere soddisfatta sotto condizioni climatiche meno favorevoli rispetto agli anni passati. Basta considerare il fatto che dal 1960 ad oggi, l’ammontare di terra coltivabile pro-capite si è ridotta da 0,41 a 0,21 ettari, e che il terreno è sempre più degradato (il 25% della terra coltivabile nel mondo è classificata come fortemente degradata). A questo si aggiunge il cambiamento climatico: l’ammontare di terra agricola affetta da siccità potrebbe crescere al 44% nel 2100 rispetto all’attuale 15,4%.[5]In uno scenario del genere, utilizzare le preziosi risorse (terra e acqua) che abbiamo a disposizione per la produzione di biocarburanti destinati ad alimentare le nostre auto è assolutamente irresponsabile.
“…In particolare, noi ci opponiamo fortemente alla deforestazione “irrazionale”, come quelle effettuate per la produzione di bio-energia: probabilmente, l’impatto ambientale della distruzione di foreste per la coltivazione di “olio di palma” per la produzione di bio-energia è centinaia di volte più elevato di quello generato dal semplice utilizzo del petrolio.”
Oliver Tickell, The Ecologist, Operetional Editor,
Appendice – Il piano nazionale per le energie rinnovabili in Italia: quali implicazioni ha per il Land Grabbing in Africa?[6]
Il governo italiano ha stanziato 200 miliardi di euro come incentivi per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili nei prossimi 20 anni (2013-2032). Per attuare il protocollo di Kyoto del 1997, il Parlamento e il Consiglio europeo hanno approvato nel 2009 la direttiva 2009/28/CE sulla promozione dell'uso dell'energia da fonti rinnovabili. Questa direttiva ha stabilito due obiettivi vincolanti per il 2020. Il primo consiste nel raggiungere il 20% del consumo energetico dell'Unione Europea (UE) utilizzando fonti rinnovabili; nell’ambito di questo obiettivo, a ciascun Paese dell’UE è stato concesso di stabilire il proprio obiettivo specifico (17% nel caso dell’Italia). Il secondo consiste nel raggiungere il 10% del consumo energetico dei trasporti dell'UE utilizzando fonti rinnovabili (il che vuol dire biocarburanti). Nel luglio 2010, l'Italia ha notificato alla Commissione Europea il suo "Piano d'azione nazionale per le energie rinnovabili", che è stato istituito nell'ordinamento nazionale con il Decreto Legislativo n° 28 del 2011.
In questo contesto, negli ultimi anni più di 20 aziende italiane hanno puntato i propri occhi su centinaia di migliaia di ettari di terreno agricolo in tutto il mondo, soprattutto in Africa.
Company | Planned investment (US$ min) | Planned land area (ha) | Crop | |
Algeria, Cameroon, Egypt, Equatorial Guinea, Ghana, Morocco, Mozambique, Senegal, Togo | Agroils | 250,000 | jatropha, rapeseed, sunflower | |
Angola | ENI | 350 | 12,000 | oil palm |
Benin | Green Waves | 250,000 | sunflower | |
Congo Brazzaville | ENI | 350 | 70,000 | oil palm |
Congo Brazzaville | Fri-EL Green Power | 40,000 | oil palm | |
Ethiopia | Fri-El Green Power | 7.2 | 30,000 | jatropha, oil palm |
Ethiopia | Nuove Iniziative Industriaii | 40,000 | jatropha | |
Guinea | Nuove Iniziative Industriali | 710,000 | jatropha | |
Kenya | Nuove Iniziative Industriali | 50,000 | jatropha | |
Madagascar | TRE-Tozzi Renewable Energy | 300 | 100,000 | jatropha |
Madagascar | Delta Petroli | 70 | 30,000 | jatropha |
Madagascar | Troiani & Ciarocchi | 100,000 | jatropha | |
Mozambique | Aviathrough Aviam Ltd | 16 | 10,000 | jatropha |
Mozambique | Seci Api Biomasse | 15 | 6,300 | jatropha |
Mozambique | Bioenergy Italia SpA | 20 | 120 | jatropha |
Mozambique | Moncada Energy Group Srl | 27 | 15,000 | jatropha |
Mozambique | Moncada + Petromoc | 15 | 10,000 | |
Mozambique | MedEnergy Global | 85 | 10,000 | oil palm |
Mozambique | Società Fondiaria Industriale Romagnola | 60 | 8,600 | sugar cane |
Mozambique, Sierra Leone | CIR Group | 4 | 45,000 | oil palm |
Nigeria | Fri-EL Green Power | 100,000 | oil palm | |
Senegal | Nuove Iniziative Industriali | 50,000 | jatropha | |
Total | 970 | 1,987,020 |
4. La “Calabar Declaration”: un accordo contro l’espansione di piantagioni di palma da olio
avendo:
avendo rilevato che :
considerando che:
Riaffermiamo:
Organizzazioni che hanno siglato l’accordo: African Dignity Foundation – Nigeria |
In sintesi, nella dichiarazione di Calabar, le organizzazioni firmatarie confermano che il "Land Grabbing" e la diffusione delle monocolture a scapito delle comunità locali sono molto dannose e portano miseria e povertà; tale fenomeno è sostenuto dai governi e spesso implica la distruzione di migliaia di ettari di foreste. In particolare, le comunità locali sono spesso espropriate della loro terra, senza un processo trasparente, a beneficio delle grandi multinazionali, e le persone che lottano per il diritto alla propria terra vengono spesso mandati in prigione. Inoltre, nei posti in cui si manifestano fenomeni di Land Grabbing, i contadini sono costretti a lavorare come schiavi nella propria terra e a comprare il cibo che una volta loro stessi producevano; iniziative come la RSPO (Roundtable on Sustainable Palm Oil) e la REDD (Reducing Emissions from Deforestation and Forest Degradation) sono inadeguate a fornire soluzioni durature ai problemi che pretendono di risolvere; infine, le convenzioni e le leggi che garantiscono i diritti delle comunità sono spesso violate. Detto questo, le organizzazioni firmatarie della dichiarazione di Calabar riaffermano: il loro sostegno alle comunità locali nella lotta per il diritto alla terra, il loro impegno nella richiesta ai governi di ratificare le dichiarazioni e le leggi internazionali che tutelano i diritti delle comunità e delle popolazioni indigene, la loro opposizione all’accaparramento di terre e foreste che beneficiano le monocolture, il loro appello ai governi per fermare e controllare l'espansione delle monocolture su larga scala, il loro impegno a costruire soluzioni alternative, che superano meccanismi come la RSPO e la REDD, a salvare l'ambiente e a utilizzare tutti gli strumenti di non-violenza necessari a far rispettare tutti i diritti delle comunità locali.
“La Sovranità Alimentare include:
La Via Campesina, Porto-Alegre, 2003 |
La possibilità di raggiungere gli obiettivi di cui sopra è minacciata dal Land Grabbing, dal momento che il terreno oggetto di accordo è quasi sempre utilizzato attraverso modelli di agricoltura industriale. Nel box che segue ci sono alcuni esempi di Land Grabbing nell’Africa centrale e occidentale.
Alcuni esempi di Land Grabbing nell’Africa centrale e occidentale
Riassumendo, in generale, questi investimenti sono poco trasparenti o addirittura segreti, dal momento che il soggetto è politicamente e socialmente sensibile. Dei 416 casi di Land Grabbing individuati al momento in cui l'articolo è stato realizzato,[9] 228 riguardano l’Africa. Alcune istituzioni sostengono che questi sono accordi "win-win", in quanto sono progettati sia per generare flussi di cassa che proteggere il modello agricolo che essi perpetuano. Per altre organizzazioni, il Land Grabbing va chiaramente contro gli interessi delle popolazioni locali. Pertanto, esse mobilitano operazioni di resistenza contro di esso, in nome della sovranità alimentare che rappresenta la vera soluzione alla crisi alimentare. |
- In alcuni Paesi, i governi stanno imponendo dei tetti (ceiling) alla quantità di terreno agricolo che un soggetto straniero può acquisire. L’Argentina e il Brasile stanno adottando questa linea di intervento.
- In altri Paesi, i leader politici stanno introducendo il divieto all’acquisto di terreni agricoli da parte di soggetti stranieri. Il presidente dell’Ungheria ha recentemente spinto il parlamento ad emanare un decreto in cui si afferma che, a partire dal 2014, non sarà permesso agli stranieri di acquistare terreni.
- Altrove, sono in fase di realizzazione altri tipi di restrizioni. In Algeria, dove lo Stato possiede gran parte dei terreni, è stata recentemente adottata una nuova legge per favorire la privatizzazione dei terreni agricoli. Gli stranieri, tuttavia, non potranno acquistare terreni agricoli se non come azionisti di minoranza, in partnership con imprese nazionali. Questo stesso tipo di limitazione è stato adottato dalla Repubblica Democratica del Congo nel 2012.
Perché queste restrizioni sono inefficaci?
Tutte queste restrizioni saranno effettivamente in grado di fare la differenza per i piccoli agricoltori che lottano per sfamare le loro famiglie e le loro comunità? Questo appare alquanto improbabile, per una serie di motivi:
- Proprietà vs affitto: In molti casi, le suddette limitazioni valgono solo nel caso di acquisto di terreni. Gli investitori possono facilmente eludere tali limitazioni utilizzando altri tipi di accordi, come i contratti di locazione e le concessioni. Un contratto di locazione a lungo termine può estendersi su diverse generazioni e avere lo stesso impatto di un trasferimento permanente di proprietà. I politici giocano con le parole, dicendo che stanno affrontando il problema (limitando la proprietà), quando invece non lo stanno affrontando affatto (consentendo l’adozione di contratti di leasing a lungo termine).
- Gli investitori stranieri possono nascondersi dietro le aziende locali: nel caso di operazioni di grande dimensione, le imprese straniere possono aprire delle filiali, delle società di comodo, o creare una joint venture con una o più aziende locali; in questo modo esse appaiono come un’entità nazionale, eludendo le limitazioni di cui sopra. Tali pratiche sono diffuse: dalla Tailandia al Brasile. Queste pratiche non sono necessariamente illegali, ma dimostrano che le leggi che tendono a limitare gli investimenti "stranieri" in genere non hanno un’efficacia significativa.
- Le restrizioni sugli investimenti possono dirottare il dibattito: in molti casi in cui le élite politiche introducono dei limiti agli investimenti stranieri riescono effettivamente a ridurre il dibattito sul Land Grabbing a livello nazionale semplicemente all’equazione "straniero=cattivo"; tuttavia, in questo modo essi riescono ad eludere la ben più importante questione della Sovranità Alimentare, di quale strategia adottare in termini di modello agricolo, sicurezza alimentare e mezzi di sostentamento.
Limitare gli Investimenti Diretti Esteri nei terreni agricoli non è di per se una decisione negativa. Tuttavia, l’obiettivo della Sovranità Alimentare può essere raggiunto solo ricorrendo ad un approccio olistico consistente in una più ampia revisione delle strategie di sviluppo agricolo e rurale e nell’adozione di programmi di riforma agraria orientati verso la sovranità alimentare. Diversamente, isolati provvedimenti volti a limitare gli investimenti stranieri in terra propria possono non avere gli effetti sperati dai cittadini e, allo stesso tempo, possono affievolire il dibattito sul Land Grabbing.
Karuturi Ltd, l’unità produttiva Keniana (con sede a Naivasha) dell’azienda di fiori Karuturi Global, è in crisi finanziaria ed è stata posta in amministrazione controllata. Questo è uno dei casi che meglio spiega gli elementi negativi che stanno dietro il “Land Grabbing”.
Karuturi Global Ltd, con sede a Bangalore, è una delle più grandi conglomerate in Africa. Nel 2007, Karuturi Global ha iniziato la sua espansione in Kenya e in Etiopia per avvantaggiarsi delle esenzioni fiscali e della disponibilità di terra, acqua e lavoro a basso costo. In pochi anni è diventata la più grande azienda esportatrice di rose al mondo. Adesso, questo esempio di “investimento diretto” nel settore agricolo in Africa è sul punto del collasso e la popolazione africana ne sta pagando le maggiori conseguenze. Tuttavia, la Karaturi Ltd non ha danneggiato solo i coltivatori locali, i lavoratori e i loro figli, ma l’intera popolazione Keniana: l’azienda ha evaso tasse per milioni di dollari attraverso il mezzo del transfer pricing.
In conclusione, gli investimenti diretti esteri non andrebbero supportati in assoluto in nome dello sviluppo; essi possono comportare gravi conseguenze alle popolazioni locali; nel caso di Kanturi, in effetti, coloro che hanno tratto i maggiori benefici dall’investimento sono stati gli azionisti della multinazionale, mentre la popolazione locale direttamente o indirettamente stanno soffrendo per un uso ingiusto e insano della propria terra.
In Sierra Leone i piccoli agricoltori rigettano gli investimenti in piantagioni di palma da olio
Il Pujehun District, nel sud-est del Sierra Leone, è stato duramente colpito dalla guerra civile conclusasi nel 2002. Oggi, il distretto è una delle aree del Paese in cui il governo sta cercando di attirare investimenti esteri per creare piantagioni di palma da olio. Ma le comunità locali si stanno opponendo all’idea di consegnare grandi appezzamenti di terreno in mano alle imprese straniere.
Due società - Socfin, la filiale locale di una società lussemburghese controllata dal gruppo Bolloré, e la Siva Group/Biopalm Star Oil con sede in India - hanno insieme acquisito i diritti su una superficie di quasi 90.000 ettari nel distretto.
Gli abitanti del villaggio sostengono che l’acquisizione è avvenuta senza un’appropriata consultazione dei membri della comunità, e molti si rifiutano di abbandonare le loro terre.
C’è una lotta in corso tra il villaggio di Ekong Anaku, nel sud-est della Nigeria, e Wilmar international su un terreno di 10.000 ettari.
Dieci anni dopo, il governatore dello Stato di Cross River ha regalato le stesse terre a una società allora posseduta dal presidente della Nigeria, Olusegun Obasanjo, che ha deciso di convertire i 10.000 ettari di foresta in una piantagione di palma da olio. Tuttavia, non possedendo gli skill adeguati per raggiungere l’intento, nel 2011 Olusegun Obasanjo ha venduto le terre acquisite (gratuitamente) a Wilmar International, la società che controlla il 45 per cento della produzione mondiale di palma da olio. Sin da allora, con il sostegno del Rainforest Resource Development Centre (RRDC), gli abitanti del villaggio di Ekong Anaku hanno combattuto per farsi restituire le loro terre. Wilmar, tuttavia, ha già messo in piedi un grande vivaio di palma da olio.
Gli abitanti del villaggio sono propensi allo sviluppo di un’eventuale forma di collaborazione con Wilmar. Secondo Linus Orok, uno dei residenti intervistati, gli abitanti del villaggio hanno tre esigenze fondamentali: la piantagione esistente deve essere gestita in partenariato; non ci può essere alcuna ulteriore espansione al di là delle aree che sono già state cancellate per la semina; il governo deve individuare e fornire al villaggio una superficie alternativa di terreno di pari dimensioni dove gli abitanti locali possono coltivare.
Anche se la comunità dovesse ottenere una forma di collaborazione da Wilmar, non c’è alcuna garanzia che essi potranno trarne dei benefici (si veda il film documentario sulle operazioni di Wilmar in Uganda).
Il ProSAVANA è un programma sviluppato dal Giappone, dal Brasile e dal Mozambico per sostenere lo sviluppo agricolo nel nord del Mozambico. Secondo la copia del Master Plan distribuita alla società civile nel mese di aprile 2013, il programma riguarda una superficie di oltre 10 milioni di ettari di terreno in 19 distretti in 3 province settentrionali del Mozambico - Nampula, Niassa e Zambezia. Oltre 4 milioni di persone vivono e coltivano in quest’area, che è stata soprannominata con il nome di Corridoio Nacala.
L'intero processo di sviluppo del programma ProSAVANA e il suo Master Plan sono stati caratterizzati da una totale mancanza di trasparenza, consultazione e partecipazione pubblica. Mentre le multinazionali agroalimentari hanno preso parte alle delegazioni governative per indagare sulle opportunità di business nel Corridoio Nacala, i 4 milioni di agricoltori che vivono nella zona interessata non hanno ricevuto alcuna informazione sulle intenzioni mostrate nel Master Plan.
Il ProSAVANA viene presentato come un programma di sviluppo e di aiuto; in realtà, dal Master Plan emerge con chiarezza che si tratta semplicemente di un business plan per l’acquisizione delle imprese agricole del Mozambico da parte di investitori stranieri. Questo si deduce dalle due direttrici principali del piano:
- Spingere gli agricoltori fuori dalle pratiche tradizionali di coltivazione e di gestione del territorio a beneficio della coltivazione intensiva basata sull’utilizzo di semi commerciali, di fertilizzanti e pesticidi chimici e sulla proprietà privata. L’obiettivo reale di questa direttrice consiste nel promuovere modelli di agricoltura intensiva e nel privatizzare i terreni in modo che possano essere meglio accessibili agli investitori esteri. Essa consente agli investitori di bypassare i negoziati con le comunità per accedere alle terre. Il piano, infatti, intende "creare un ambiente di cooperazione e integrazione tra la piccola azienda agricola del Mozambico e gli investitori esteri."
- Spingere gli agricoltori a siglare contratti con le aziende agroalimentari: il Master Plan divide il corridoio Nacala in zone, e definisce quali colture possono essere coltivate in queste zone, dove e come devono essere coltivate, e da chi possono essere coltivate (piccoli contadini, aziende medie o multinazionali). All'interno di queste zone, il piano delinea diversi progetti per la produzione di materie prime, alcuni dei quali nelle mani esclusive delle grandi multinazionali agricole, altri basati sulla collaborazione tra grandi e medie imprese e altri ancora sulla concessione di contratti di produzione ai piccoli agricoltori. Alcuni dei progetti all'interno del piano destinano ampie aree di terra agli investitori. Le corporation possono beneficiare di diverse Zone Economiche Speciali (ZES); in queste zone, esse sono libere dal pagamento di tasse e dazi doganali.
In conclusione, il Master Plan, nella sua forma attuale, distrugge l'agricoltura contadina basata sulla condivisione dei semi, sulle conoscenze locali, sulle colture alimentari locali e su sistemi tradizionali di gestione del territorio. Il piano toglie ai contadini le loro terre o li costringe a produrre sotto contratto per le multinazionali agricole e a indebitarsi per pagare i semi, i fertilizzanti e i pesticidi necessari alla produzione. Solo uno dei sette distretti inclusi nel Master Plan è diretto ai piccoli agricoltori e alla produzione alimentare di tipo familiare. Le grandi imprese sono i reali beneficiari di questo Master Plan. Esse hanno il controllo sulla terra e sulla produzione; controllano il commercio degli alimenti prodotti. La vendita di semi, pesticidi e fertilizzanti provenienti da aziende estere avrà anche essa indubbi benefici da questa massiccia espansione dell'agricoltura industriale in Africa.
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ENDNOTE
[1] La stima pubblicata nella newsletter di giugno 2013 è inferiore a stime precedenti effettuati dagli stessi ricercatori di Land Matrix in quanto fa esclusivo riferimento ai territori appartenenti ai Paesi a medio e basso reddito.
[2] Si veda l’intero articolo sul sito web di GRAIN: http://www.grain.org/article/entries/4653-land-grabbing-for-biofuels-must-stop
[3] Secondo la United Nations Environment Programme (UNEP), 35,7 milioni di ettrai venivano utilizzati per la produzione di biocarburanti con dati al 2008. Sempre la UNEP stima che tale misura è destinata a crescere a 80 milioni di ettari entro il 2020, con un aumento di 44,3 milioni di ettari rispetto al 2008; altri studi stimano un incremento a 116 milioni di ettari entro il 2020, e addirittura 1.668 milioni di ettari entro il 2050. Si veda la pubblicazione dell’UNEP, "Towards sustainable production and use of resources: assessing biofuels," 2009 (pdf)
[4] Sul sito di GRAIN è disponibile la lista del Land Grabbing relative agli accordi di Jatropha - http://www.grain.org/article/entries/4653-land-grabbing-for-biofuels-must-stop
[5] Potsdam Institute for Climate Impact Research and Climate Analytics, "Turn Down the Heat: Why a 4°C Warmer World Must be Avoided", a report for the World Bank, novembre 2012.
[6] Per maggiori dettagli su questo topic si consulti il seguente articolo di GRAIN: “Who is behind Senhuile-Senethanol?” http://www.grain.org/article/entries/4815-who-is-behind-senhuile-senethanol
[7] Si consulti l’intero articolo sul sito web di GRAIN: http://www.grain.org/article/entries/4831-the-calabar-declaration
[8] Per maggiori dettagli su questo topic si consultino I seguenti articoli pubblicati da GRAIN: “Land grabbing and food sovereignty in West and Central Africa”, 19 September 2012, http://www.grain.org/article/entries/4575-land-grabbing-and-food-sovereignty-in-west-and-central-africa
[9] 19 September 2012
[10] To find out more on this topic see GRAIN’s article: “Land ceilings: reining in land grabbers or dumbing down the debate?” at http://www.grain.org/article/entries/4655-land-ceilings-reining-in-land-grabbers-or-dumbing-down-the-debate
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