Un´agricoltura sostenibile parte dalla responsabilità personale

Ringraziando la possibilità di scrivere per questo blog, in un periodo della mia vita in cui è un piacere esprimere in un così interessante contesto almeno una parte delle elucubrazioni che mi si affastellano nella mente mentre ancora metabolizzo personalmente i cambiamenti che ho voluto e affrontato negli ultimi anni, proverò a lanciare una specie di provocazione che potete considerare una chiamata alle armi, intellettuali prima che fisiche (e cmq non letali).

Tornando da Bassano del Grappa, dopo aver assistito ad una gremita conferenza alla quale partecipava Vandana Shiva,  nella sua tournée italiana, i pensieri sono molti e francamente un po’ scoraggianti. Si è parlato degli effetti politici, sociali, ecologici, e persino psicologici del ridurre l’agricoltura (che è ci tengo a precisarlo il modo nel quale produciamo ancora buona parte del cibo di cui abbiamo bisogno come specie) a mera produzione di reddito e prodotti, con un approccio forzatamente industriale e sempre più centralizzato quindi implicitamente insostenibile. Cosa che a mio parere ormai è evidente a ogni essere umano pensante.

La saggia dottoressa Shiva propone invece un modello sociale che sorpassi le ecologicamente, economicamente e socialmente insostenibili monocolture e grande distribuzione, sostenendo invece un modello nel quale chi voglia mangiar sano si rivolga a chi invece voglia produrre cibo sano. Viene applaudita da tutta la sala. Una sala, credo, di persone mediamente con alta qualificazione ognuno nel suo campo. È una stima che faccio conseguente alla mia esperienza di vita che mi ha portato a vivere diversi anni, oltre che in Italia, in Germania e alle Canarie, dopo un brusco stop per cause di salute che mi porta ora a scrivere di, più che a praticare, una certa agricoltura, ahimè…
Ed è qui che mi vengono alla mente pensieri scoraggianti. È chiaro che sarebbe auspicabile una certa profonda decentralizzazione della produzione e la distribuzione di cibo, che in questo modo diverrebbe più democratica, anche umanamente più sana ed ecologicamente sostenibile, oltre a meno dipendente da grosse corporazioni e lobbies che hanno prima di tutto a cuore solo l’ottimizzazione del profitto: i giganti dell’agribusiness e quelli dell’industria petrolchimica. Il problema che io vedo è, però, che questo tipo di modello tanto applaudito in quella sala implica che ci siano molte più persone, rispetto a ora, disponibili a sporcarsi le mani, zappare, e non delegare ad altri la produzione del loro cibo. Perché questo è stato il pomo avvelenato del progresso e di tutte quelle comodità che ormai tutti diamo per scontate: Da una parte, moltissimi considerano l’agricoltura un’attività fisicamente massacrante proprio perché fatta e concepita in una determinata maniera, dall’altra siamo sempre più figli di una cultura ed educazione che vede questa un’attività per bifolchi non istruiti, nel momento in cui sempre più vaste fasce della popolazione hanno fatto le alte scuole,  come le chiamavano i nostri nonni. È qui il punto, a parte la partecipazione e gli applausi, quante di quelle persone sarebbero pronte a dare il proprio contributo? A mettersi in gioco tanto da mettere in discussione quelli che ormai sono diventati paradigmi per la società occidentale? In soldoni, nonostante si faccia tanto parlare del cosiddetto “ritorno dei giovani alla terra”(e mi ci metto anch’io), quanti sono tanto intenzionati a smettere di considerare la Natura come un nemico pericoloso e sporco da piegare e sconfiggere, tanto da investirci tempo e energie? Perché da questo punto di vista, un’economia a lungo termine richiederà un certo numero di persone disponibili a produrre cibo sano e nutriente, per decentralizzarne il dominio ”

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